«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot
Nel pensiero di Günther Anders argomentazioni filosofiche si fondono alla narrativa: concetti nuovi o rielaborati vengono espressi egregiamente tramite la creazione di personaggi ambigui, tesi fra la realtà della cronaca e delle esperienze personali dell’autore e parossismi idealizzati se non, in alcuni casi, favole [1].
Tuttavia ciò non pregiudica la serietà e la drammaticità che tali figure letterarie incarnano. Nell’insieme della raccolta di saggi dell’opera principale di Anders, L’uomo è antiquato, è possibile seguire le tracce di tre di esse per ricomporre in un unico quadro le diverse forme di frustrazione e malessere che l’uomo moderno prova nella società tecnocratica per la sua mancanza di libertà e per l’incapacità d’essere, anch’egli, una macchina perfettamente funzionante.
«Non si deve prendere tutto per vero, si deve prenderlo solo per necessario»
[F. Kafka, Il processo, Garzanti, Milano, 1984, p. 181].
Quando Kafka scrive Il processo (1914-1915) Rosenzweig deve ancora dare alle stampe La stella della redenzione (1921); tra questi due estremi temporali la gemeinschaft mitteleuropea, salda sotto il tallone dispoticamente illuminato della monarchia absburgica, si sta irreparabilmente sgretolando dando fiato potente alle petizioni di Herzl e di chi, in seno alle medesime comunità ebraiche, condanna l’assimilazione dei figli di Giacobbe alla kultur occidentale e, più propriamente, cristiana. Scrive Ferruccio Masini nella sua sorvegliata “Introduzione” all’edizione citata de Il processo: «è proprio […] la presenza di questo nostro tempo (“il mio tempo”, dirà Kafka, “cui mi sento molto vicino, e che non ho il diritto di combattere ma, in un certo senso, di rappresentare”) nell’opera dello scrittore a radicalizzare, in una sorta di ‘cabbala’ individuale a sfondo nichilista, quegli elementi antirestaurativi e paradossali della tradizione cabbalistico-chassidica per i quali lo stesso avvento del Messia [yichud, nota di chi scrive] è legato a condizioni impossibili, al giorno, cioè – come si legge in una citazione benjaminiana dallo Zohar – in cui tutte le lacrime di Esaù si saranno disseccate. Per questo l’allegoria nichilista dei racconti kafkiani non adombra il divino “nulla originario” (ajin gamur) dei cabbalisti, identificato con la stessa infinità di Dio (En-sof, sic), né quello dell’eckhartiano “fondamento senza fondamento”, ma un sortilegio nullificante immanente alla stessa quotidianità. Oltre la precarietà del possesso di un mondo di cose […] questo nulla intacca ogni possibile fondamento, separa il desiderio dalla cosa desiderata, l’attesa dal Messia, la speranza dal sabbath, il singolo da antenati e discendenti» [op. cit., p. XVI].
Coloro che detengono il potere stanno letteralmente cercando di spezzare una parte della nostra ossatura etica,
di attenuare e dissolvere ciò che rappresenta probabilmente
la più grande acquisizione della civiltà,
la crescita della nostra sensibilità morale spontanea.
S. Žižek, In difesa delle cause perse. Materiali per la rivoluzione globale
Nel suo piccolo ma denso volume Sociologia dell’agire politico. Bauman, Habermas, Žižek (Studium, Roma 2014), Francesco Giacomantonio cerca ragioni valide per motivare un agire politico «intorpidito da una visione della politica, intesa sempre più come mera gestione e governance dell’esistente, che toglie qualsiasi portata ideale» (p. 16). Deve fare i conti però con una “egonomia politica” in cui l’Io diventa un sistema di riferimento, la base dell’organizzazione socio-politica (p. 19). Un nuovo modo d’intendere il rapporto tra autocostrizione e autocostruzione che limita l’autonomia e la responsabilità e favorisce la dipendenza (eteronomia) e la coazione a ripetere.
Maria Grazia Turri aveva già dato prova del suo talento filosofico con lavori importanti come: Biologicamente sociali culturalmente individualisti, Mimesis, Milano-Udine 2012 e La distinzione fra moneta e denaro: Ontologia sociale ed economia, Carocci, Roma 2010. Con il suo recente contributo Gli dei del capitalismo: teologia economica nell’età dell’incertezza, Mimesis, Milano-Udine 2014, inaugura una nuova collana della casa editrice Mimesis (da lei diretta) con un nome non molto familiare nel panorama dell’offerta accademica italiana: Filosofie dell’economia. Si tratta di lavoro approfondito e impegnativo il cui intento è quello di «mettere sul banco degli imputati l’astoricità del pensiero e dei valori che sottostanno ai comportamenti economici e politici, tradizionalmente letti come autonomi» (p. 11).
Sociologia e SocioSofia. Dinamiche della riflessione sociale contemporanea di Francesco Giacomantonio
> di Ruggero D’Alessandro*
Francesco Giacomantonio con il suo volume Sociologia e SocioSofia. Dinamiche della riflessione sociale contemporanea (Asterios, Trieste 2012) risponde a pressanti necessità:
Tracciare i limiti epistemologici del fare sociologia;
Riflettere su alcune grandi questioni poste dalle attuali vorticose trasformazioni;
Identificare gli strumenti teorici, pratici, culturali con cui la sociologia lavora nel passaggio dal XX al XXI secolo.
«Indipendentemente da ciò che essa mostra o censura,
l’immagine che comunque si da a vedere,
è anche e soprattutto
quella che nasconde tutte le altre»
M. Scotini, Governo del tempo e insurrezione delle memorie.
Immagine. Sovversione dell’occhio elevato a unico strumento di assimilazione sensoriale. Immagine che domina tutta l’esperienza dell’uomo contemporaneo. Immagine del potere e potere delle immagini. Scandalo della completa esposizione, della visibilità a tutti i costi, dell’esistenza per e grazie all’esposizione dell’icona che si fa presenza obbligatoria. Immagini che divorano altre immagini. Sempre più definite, sempre più violente, sempre più ossessive. L’immagine e la sua manipolazione deve rientrare negli interessi di ogni critico culturale. Libri come La società dello spettacolo di G. Debord e Lo stato seduttore di R. Debray, devono circolare nei ragionamenti con familiarità e fare da punto di riferimento per le analisi del nostro tempo luccicante di stellette tristi.
Da qualche tempo non si fa altro che ripetere quanto sia importante la cultura, quanto faccia bene leggere, scrivere, informarsi. Campagne ministeriali – non prive di qualità estetiche ed efficacia comunicativa – ci dicono che grazie alla lettura riusciremo ad arrivare molto più lontano degli altri. Tuttavia, tra i nuovi poveri si trovano giovani istruiti, forti lettori, con molti anni di studi universitari alle spalle. Recenti ricerche sul precariato cognitivo c’informano che proprio il cosiddetto “mondo della cultura” produce sfruttamento, marginalizzazione, precarietà. La cultura è importante – si dice nei salotti buoni – ma a patto che essa tessa l’elogio della struttura del dominio, che si faccia portavoce del discorso neoliberista, che sia a servizio della persuasione e della manipolazione generalizzata e collettiva. Fuori da questa schiavitù volontaria e non necessariamente salariata, il destino della cultura non stipendiata è il ghetto.
Florida State University – Tallahassee Spring Semester 2014 Guest Lecture for the course Readings in Contemporary Italian Literature and Culture taught by Prof. I. Zanini Cordi
In un articolo pubblicato nel 1976 sulla rivista L’erba voglio fondata dallo psicoanalista Elvio Fachinelli (1928-1989), Mario Perniola individuava nell’eterno ritorno dell’uguale il tratto fondamentale (e paradossale) della differenza italiana. Secondo quella diagnosi, il Paese era bloccato – fin nel suo genoma culturale – nell’impossibilità di evadere dall’apparenza del cambiamento. Perniola dilatava pertanto l’amara constatazione di Tomasi di Lampedusa (1896-1957) – secondo la quale tutto deve cambiare perché tutto rimanga così com’è – a cifra interpretativa non solo dell’Italia unificata, ma delle sue radici culturali pre-risorgimentali, addirittura cinquecento-secentesche. Il barocco italiano, ad esempio, con la sua enfasi sulla mutevolezza delle forme e delle immagini – l’Adone di Giovan Battista Marino (1569-1625) venne pubblicato nel 1623 a Parigi – già preludeva nell’analisi di Perniola alla levità, alla leggerezza senza peso specifico d’una società che ben conosciamo. Un società, in altri termini, il cui immaginario doveva essere fagocitato a breve da un nuovo soggetto economico-politico, incentrato sul possesso e l’utilizzo dei mass-media (della televisione, in particolare). Non molti anni dopo il 1976 in cui uscì l’articolo di Perniola, il governo socialista presieduto da Bettino Craxi cedette di fatto, tra il 1984 e il 1985, il monopolio della televisione commerciale a Silvio Berlusconi – ponendo così le basi di un successo che l’imprenditore, a partire dal 1994, avrebbe sfruttato anche sul piano politico.