«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot
I media («e l’esistenza di un dibattito politico sia pur posticcio è necessaria al funzionamento armonioso dei media, forse persino all’esistenza in seno alla popolazione di un senso quantomeno formale di democrazia», Sottomissione, pp. 172-173) non hanno perduto l’occasione per dimostrare ancora una volta la loro superficialità. Ma è chi sta dietro ai media, l’intellettuale, che ha dimostrato di essere persino peggio senza attenuanti generiche. Capiamoci: Houellebecq non è “Charlie Hebdo” e Sottomissione non c’entra nulla con il terrorismo. Chi sostiene il contrario è in malafede.
La società, così si sente sempre più di frequente ripetere – a tal punto che ciò che era scaturito come una possibile visione del mondo ne è divenuta la sola possibile, un dogma – è come un organismo e come ogni organismo ha in sé la capacità di riprodursi e di contrastare tutto quel che di minaccioso e di ostile alla sua prosperità può farglisi innanzi. E come un organismo, ad esempio, minacciato dal diabete, per fronteggiare la cancrena che presto o tardi lo pervaderà, stabilisce di dover amputare le propaggini più estreme e più marginali di sé al fine di arrestare la distruzione e lo sfacelo che attraverso di esse hanno aggredito il corpo nella sua totalità, allo stesso modo la società esilia, bandisce, espelle chi in essa non è portatore di beneficio, chi essendo stato respinto o, peggio ancora, nato ai margini non può che costituire una minaccia per la salute pubblica. Poeti, filosofi, artisti, pazzi. Lasciate coloro che sono ai margini fuori dalla città della speranza, sembrano dire i benestanti abitanti della società liberale, non curatevi di loro né, tanto meno, con loro mescolatevi pena il contagio e il deperimento di ciò che è sano perché sotto ogni cielo ed in ogni epoca nessun sano desidera intrattenersi con la malattia. Così non è lontano il giorno in cui sarà data cittadinanza solo a coloro che avranno reddito tale da poter, a pieno titolo, abitare il florido corpo sociale. Quanto agli altri, poeti, filosofi, artisti, pazzi, essendosi essi stessi voluti stranieri, ebbene, che restino fuori dalle nostre porte e dalla nostra speranza, invisibili.
«Se si guarda dall’alto, da una prospettiva panoramica, le vie percorse dalla ricerca di Ludovico Gasparini, non si può non osservare come esse riprendano, riformulandola o esplorandone nuovi metodi di risposta, una medesima questione, affrontata sin dall’inizio, che concerne il significato della libertà»1.
1. Intelligo quia absurdum
«Gàr autò noeîn estín te kaì gàr eînai» lo stesso è il pensare e l’essere secondo Parmenide in ciò ripreso da Hegel. Ma pensare richiede sempre un oggetto tematico di conoscenza, di apprensione, un pensare-di-qualcosa fosse anche il pensiero medesimo, e dunque pensare di essere non è lo stesso che essere; diversamente ne risulterà un essere impuro in quanto dimidiato con il pensiero. Ciò che è è necessariamente 2, senza dunque dipendere da un pensiero altro che lo pensi: «solo nominare l’Altro, significa immetterlo nella sfera della soggettività, per quanti sforzi si facciano per conservarlo come Altro»3. Ma «se l’essere ha bisogno, in qualsiasi modo lo si intenda, esso cade immediatamente nella correlatività dei bisogni, che è la fonte della rettorica di Michelstaedter, e non può più sottrarsene, per quanto se ne differenzi»4. Perché «se “l’Assoluto solo è vero, o il vero è Assoluto”, poiché non è possibile che “l’Assoluto se ne stia da una parte e il conoscere dall’altra”, allora una volta tolto l’Assoluto, ovvero, una volta criticata la pretesa hegeliana che “l’amore del sapere” possa trasformarsi in “vero sapere”, la realtà stessa viene annichilita e non può più darsi in essa alcun criterio capace di distinguerla dall’immaginazione, se non il medesimo senso comune»5.
«Per quanto quel che segue possa dunque essere costituito da minutissimi pezzi, lacerati, chissà, dallo stesso autore in uno dei suoi momenti peggiori, se essi non hanno esaltato solo la sua voce ricevono impresso uno stampo e un ferreo sistema dalla realtà stessa delle cose, come succede a ogni pensiero che non si sia gingillato con se stesso» [M. Sgalambro, DMP].
«L’unità non è un luogo; il frammento è un luogo, è tutti i luoghi, e l’unità lo abita inapparente» [G. Ceronetti, TP].
Finché la colpa ottenebrerà la lingua della ragione ancora il cuore avrà bisogno di sangue caldo con il quale placarsi la sete. Nessuna condanna togata varrà mai quanto andiamo catodicamente espiando per interposta visione. Aronne, indossando la veste dell’anchorman «poserà entrambe le sue mani sulla testa del capro vivo e confesserà su di esso tutte le iniquità dei figli d’Israele, tutte le loro trasgressioni, tutti i loro peccati, e li metterà sulla testa del capro… (ed esso) porterà su di sé tutte le loro iniquità in terra solitaria» [Le 16, 21-22].
La tassonomia – ed il suo sommo pontefice Linneo – è la più corruttiva delle infezioni del cerebro che, originando da Aristotele, abbiano incendiato gli ingegni facilmente surriscaldabili degli illuministi fino all’ascesso febbrile della cosmologia hegeliana. Non si dà infatti alcun ordine quanto alle cose del mondo – ed ancor meno esso vige nelle faccende di spirito – differente dalla inestinguibile volontà di persistere e di depredare. E come in natura ad ogni generazione trionfa il più forte così è per le cose dello spirito: l’idea più forte si impone inconsapevole di essere il prossimo capro sgozzato sull’altare della vita.
La città è il travestimento per eccellenza: in città migliaia di vite simulano senza sosta la vita incessante della natura. Un teatro di gesta. Epperò l’uomo, che è per certo creatura della natura, è altresì la meno naturale tra di esse quanto al vivere e nel suo vivere, più egli si vuole naturale più della natura si fa imitatore. Di modo che nulla vi è di più naturale, di più umano della sua maschera. La città è religio mortis, non avvolge come il borgo solleticando l’illusione dell’appartenenza, della comunità (Gemeinschaft). Nella sua oscenità la solitudine vuole l’atrocità della moltitudine, la sua messinscena.
E come l’edera cresce più rigogliosa sulle spoglie putrescenti dell’antica verzura, sempre intrecciando foglie fresche ad altre ormai vizze così tutto quanto vive e si muove calpesta l’impronta di quel che morendo gli ha aperto il sentiero lasciando al contempo segno del proprio passo. Ancora la generazione segue la corruzione, l’essere il nulla essendo, di questo, il simbolo, il mistero manifesto.
La violenza spesso ristagna tagliente nelle espressioni all’apparenza più innocue. “Cittadino del mondo” ripetono in contrappunto le anime che si vogliono semplici ma avvertite; non si avvedono che, così facendo, strappano con l’inganno a quella natura che tanto rispettano la sua ultima potestà: l’essere cioè compiutamente tirannica.
La filosofia che nasce urbana è una filosofia viziata; somiglia a quei frutti che catturano la vista anziché il gusto tanto sono irrealmente privi di imperfezioni. La filosofia, quando nasce autentica, è sempre una filosofia della natura, περι φυσεως.
Insito nella rappresentazione è irriducibile l’errore: ogni rappresentazione è, invero, un essere-in-vece-di, un costituire relazione. Pure ciascuna relazione in sé non è altro che l’attuarsi d’una assenza di autonomia, una costante manifestazione di insufficienza, di mancanza. Il dolore pertanto scaturisce, prorompe dall’inestinguibile sentimento di privazione, di frammentazione dell’unità originaria [dolere origina dal latino dolere da riferirsi alla radice dar=dal, dol spezzare, scindere ravvisabile anche nel sanscrito darati e dalati scoppiare, lacerare, fendersi e nel greco dero scorticare] che si vuole ognora sanata in una nuova unità. Senza avvedersi l’uomo che è proprio nella volontà di unire ciò che il dio ha diviso che alberga il dolore. E dunque volere la lacerazione, aspirare alla scissione, protendersi alla totalità conoscendo irraggiungibile – perduta – ogni unità.
«Bisogna essere un abisso, un filosofo… Abbiamo tutti paura della verità…» [1]
Scrivere – afferma Eduardo Lago – «è avvicinarsi all’abisso. Per Bolaño “l’alta letteratura, quella che scrivono i veri poeti, è quella che osa addentrarsi nell’oscurità con gli occhi aperti, succeda quello che deve succedere”. Scrivere: addentrarsi nell’inferno; la letteratura è “un lavoro pericoloso”. Pericoloso perché decifrare l’enigma dell’esistenza implica scontrarsi in termini assoluti con il Male e la Morte» [Eduardo Lago, “Sete del male“].