> di Massimo Carloni*
«Ho vissuto l’inesprimibile»
Cos’è il male? E soprattutto, come si manifesta nella realtà umana? Azzardiamo una definizione, per così dire, esistenziale. Il male è quella particolare condizione umana caratterizzata da una progressiva negazione della libertà individuale, che blocca o limita la possibilità di progettarsi nel mondo, di sottrarsi all’inerzia pietrificata di ciò che si è, culminante nella definitiva soppressione della persona ad opera della morte. Una tale condizione può essere determinata da un dolore fisico o da una sofferenza morale; può provenire dall’esterno o consumarci dall’interno; può emanare da una volontà individuale o collettiva, ovvero da un meccanismo sociale impersonale. Il risultato, tuttavia, non cambia. La sfera della libertà personale risulta compromessa, subisce una contrazione, fino a collassare su se stessa.
Prima ancora d’interessare l’ambito morale, metafisico o religioso, il problema del male è prima di tutto una questione essenzialmente fisica. Il corpo, in quanto veicolo della libertà umana, diventa lo scenario in cui il male dispiega la propria azione distruttiva. Dotato di un apparato sensoriale vulnerabile alle sollecitazioni sia esterne che interne, il corpo, da una parte, è il bersaglio privilegiato della violenza, dall’altra, con il decadimento fisiologico, diventa produttore del proprio dolore, come una sorta di torturatore di se stesso.
Jean Améry[1] è stato un testimone diretto, quanto mai lucido e prezioso, delle manifestazioni del male: dalle più atroci, perpetrate dall’uomo sui propri simili, a quelle cosiddette naturali, quali la malattia, la vecchiaia e la morte, sino alla paradossale soluzione che induce l’individuo a «levare la mano su di sé». Intrecciando mirabilmente esperienza personale e analisi fenomenologica, Améry conferisce ai suoi scritti letterari e saggistici, il tono inconfondibile dell’autenticità, della verità vissuta, così da farli apparire come altrettanti capitoli d’una lunga, amara autobiografia.