Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot


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Jean Améry e la fenomenologia del male

> di Massimo Carloni*

«Ho vissuto l’inesprimibile»

Cos’è il male? E soprattutto, come si manifesta nella realtà umana? Azzardiamo una definizione, per così dire, esistenziale. Il male è quella particolare condizione umana caratterizzata da una progressiva negazione della libertà individuale, che blocca o limita la possibilità di progettarsi nel mondo, di sottrarsi all’inerzia pietrificata di ciò che si è, culminante nella definitiva soppressione della persona ad opera della morte. Una tale condizione può essere determinata da un dolore fisico o da una sofferenza morale; può provenire dall’esterno o consumarci dall’interno; può emanare da una volontà individuale o collettiva, ovvero da un meccanismo sociale impersonale. Il risultato, tuttavia, non cambia. La sfera della libertà personale risulta compromessa, subisce una contrazione, fino a collassare su se stessa.

Prima ancora d’interessare l’ambito morale, metafisico o religioso, il problema del male è prima di tutto una questione essenzialmente fisica. Il corpo, in quanto veicolo della libertà umana, diventa lo scenario in cui il male dispiega la propria azione distruttiva. Dotato di un apparato sensoriale vulnerabile alle sollecitazioni sia esterne che interne, il corpo, da una parte, è il bersaglio privilegiato della violenza, dall’altra, con il decadimento fisiologico, diventa produttore del proprio dolore, come una sorta di torturatore di se stesso.

Jean Améry[1] è stato un testimone diretto, quanto mai lucido e prezioso, delle manifestazioni del male: dalle più atroci, perpetrate dall’uomo sui propri simili, a quelle cosiddette naturali, quali la malattia, la vecchiaia e la morte, sino alla paradossale soluzione che induce l’individuo a «levare la mano su di sé». Intrecciando mirabilmente esperienza personale e analisi fenomenologica, Améry conferisce ai suoi scritti letterari e saggistici, il tono inconfondibile dell’autenticità, della verità vissuta, così da farli apparire come altrettanti capitoli d’una lunga, amara autobiografia.

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Da Bruno a Escher: la Biblioteca celeste di Interstellar

> di Giuseppe Brescia*

 

Christopher Nolan e il Nolano.

Anche il fare cinema “arte figurativa”, “Tempo sul tempo” (Carlo Ludovico Ragghianti);la esaltazione dello spazio-tempo, “quarta dimensione” (Bruno Zevi), è la essenza del ‘cinema’ stesso, riguardata sotto il punto di vista ermeneutico, assumendo la nostra teoria, “l’arte tanto intuisce quanto prospetta” (“Non fu sì forte il padre”, Galatina 1978), in grado di annodare epistemologia, estetica idealistica, cosmologia, fisica moderna, neurobiologia e scienze di frontiera, “Azione a distanza” e – da ultimo – le tante variazioni del “senso del celeste” (Dante e Bruno, Vico, Galilei e Margherita Hack, Leopardi, Baudelaire, Proust e Joyce, Tolstoj e Saint-Exupery, Santillana e Calvino). E quale miglior pietra di paragone, per tale paradigma, del fantastico film “Interstellar” dell’inglese Christopher Nolan (scritto assieme al fratello Jonathan, Warner Bros 2014: consulenza del fisico teorico del California Institute of Technology Kip Stephen Thorne; con musiche di Hans Zimmer ed Effetti speciali di John Kelso e Paul Franklin)? Continua a leggere


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Tegere artem: il valore e il limite dell’ars dialectica nella riflessione di Lanfranco di Pavia e Pier Damiani

> di Alfredo Gatto*


Lanfranco di Pavia e Pier Damiani rappresentano due delle figure più importanti dell’intero panorama dell’XI secolo. Le loro opere costituiscono una via di accesso privilegiata per analizzare e valutare la diffusione e l’importanza dell’ars dialectica nel milieu culturale di questo periodo storico. I due teologi si confrontarono criticamente con i dialettici del tempo, cercando di preservare l’intelligenza spirituale delle Sacre Scritture. Come ha sottolineato Josef Anton Endres [1], prima della controversia tra il nominalismo e il realismo, un’altra disputa aveva occupato il centro della scena: ci stiamo riferendo, naturalmente, al confronto fra i “dialettici”, intenzionati ad applicare ai dogmi cristiani gli strumenti formali della dialettica, e gli “antidialettici”, così chiamati per il loro rifiuto di impiegare in modo acritico le regole dell’ars disserendi allo studio della Bibbia [2]. Sebbene questa classica distinzione sia stata giustamente oggetto di alcune critiche [3], uno schematismo così rigido ci permette tuttavia di collocare i principali nodi concettuali di quella celebre disputatio all’interno di un quadro storico ben preciso. Continua a leggere


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Arthur Koestler, epistemologo della creatività

> di Giuseppe Brescia*

Di Arthur Koestler (Budapest 1905 – morto suicida a Londra con la moglie Cynthia nel 1983), ‘assetato di assoluto’ e studioso del ‘senso oceanico’ specie nell’ultima fase della propria riflessione (dopo averne scoperto la esigenza in “Buio al Mezzogiorno”, come risposta al male), la cultura italiana si occupava a causa della morte, in occasione della pubblicazione del suo ‘capolavoro’, del contributo al “Dio che è fallito” (Testimonianze sul comunismo) e dei vari tomi della ‘Autobiografia’, via via poi declinando verso il ‘silenzio’, specie nel trentennale della scomparsa, o persino tentando una lettura a posteriori, “politically correct”, di “Darkness at Noon” (dal 1940, data dell’originale, al 1946, 1950 e 1992, per le prefazioni agli “Oscar Mondadori”).

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Emil Cioran (3)


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Cioran e la filosofia (III)

> di Massimo Carloni*

3. La passione dell’Insolubile

Skiās onar anthrōpos [1]

(PINDARO, Ode Pitica, VIII)

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3.1 Il demone del dubbio

Cioran è stato un pensatore dalle molte anime, non sempre in armonia tra loro, è vero, anzi, spesso configgenti e contraddittorie, che nell’arco d’una vita si sono contese con alterne vicende il predominio di quella «piaga a nove fessure» che è stato – secondo una sua nota espressione [2] – il proprio corpo. Col passare degli anni, tuttavia, inizia a rendersi conto che le sue fluttuazioni intellettuali, non meno che la sua instabilità emotiva, sono nient’altro che un epifenomeno di quella fondamentale «intolleranza all’essere» [3], di quel disgusto innato per le evidenze – così come per tutto ciò che è definitivo, certo, conclamato – che scopre essere la sua natura più profonda. Non appena si appassiona a qualcosa o a qualcuno, sente subito un impulso irrefrenabile a confutarne le istanze, a polverizzarne le convinzioni, a demolirne la statua che ha appena eretto. Il demone del dubbio, insinuandosi ovunque, gli impedisce di aderire completamente ai suoi oggetti d’ammirazione, al punto che gli Esercizi omonimi, finiscono per tramutarsi in assassini più o meno mascherati.

In Cioran i vacillamenti dell’animo incominciano quindi a ruotare e ad organizzarsi attorno a un punto sempre più fermo e definito, che ne scandisce le evoluzioni e dove tutto, alla fine, ritorna. Questo buco nero, vero e proprio punto di attrazione e dissoluzione, è il suo fondo scettico: «Sia che mi attiri il buddhismo o il catarismo o qualsivoglia sistema o dogma, conservo un fondo di scetticismo che niente potrà mai intaccare e al quale ritorno sempre dopo ognuna delle mie infatuazioni. Sia esso congenito o acquisito, mi appare ad ogni modo come una certezza, anzi come una liberazione, quando ogni altra forma di salvezza sfuma o mi respinge» [4].

Lungi dall’essere una posa puramente intellettuale o un’opzione filosofica, lo scetticismo diventa una seconda natura che, al pari d’un virus o d’una droga, si sovrappone al normale funzionamento del suo organismo: «Dapprima strumento o metodo, lo scetticismo ha finito per istaurarsi in me, per diventare la mia fisiologia, il destino del mio corpo, il mio principio viscerale, il male di cui non so più né come guarire né come perire» [5]. A ben guardare il dubbio non si differenzia da una vera e propria passione, quantunque appartenga ad un genere del tutto particolare, poiché, privo com’è d’oggetto, si nutre esclusivamente dei propri interrogativi e delle proprie incertezze, diventando in un certo senso fine a se stesso. Una «passione dell’insolubile» appunto, che, in quanto tale, scalza tutte le altre, proprio perché, a differenza loro, si pone al riparo da qualsivoglia delusione.

Riguardo agli accessi di furore e disperazione che lo tormentavano in gioventù, lo scetticismo ha avuto su Cioran l’effetto d’un tranquillante, uccidendo in lui il mostro, «la bestia da preda» [6]. Proclamando a chiare lettere l’indeterminatezza ultima di ogni fenomeno, il dubbio svuota le cose del loro statuto ontologico, spogliandole di ogni significato (morale, estetico, ecc.) su cui le passioni possono attecchire. «Poiché solo il dubbio può liberarci, ed allontanarci dai nostri attaccamenti. Ciò che per il comune mortale è una condizione appena tollerabile, quasi un incubo, per lo scettico è un modo di perfezione, in ogni caso un compimento, uno stato positivo. (Lo scetticismo o la salvezza attraverso il dubbio)» [7]. Continua a leggere

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Critiche biologiche alla teoria chomskiana della grammatica universale innata

> di Davide Russo*

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E’ così, ma tuttavia mi accorgo che, se si possono usare i caratteri per ragionare, è perché in essi sussiste qualche disposizione complessa o ordine che conviene con le cose stesse, se non nelle singole voci (anche se questo sarebbe meglio) almeno nella loro congiunzione e flessione. E vi è qualcosa che corrisponde a quest’ordine, sebbene variato, in tutte le lingue.1

ABSTRACT: La teoria chomskiana della grammatica universale innata come spiegazione della capacità di linguaggio presenta delle assunzioni collaterali molto forti e indifferenziate, su cui si sono concentrate le attenzioni dei critici, in quanto punti deboli della teoria: 1) Tomasello ha sottolineato l’importanza del contesto sociale e della sua dimensione intersoggettiva per l’apprendimento del linguaggio. Anche la grammatica viene concepita come un prodotto congiunto di eredità comunicativa e interazioni sociali all’interno di una “storia convenzionalizzata”. 2) Deacon ha sottolineato invece che anche le lingue hanno una loro storia evolutiva, progettandosi da sé, in un rapporto di stretta simbiosi con i loro ospiti umani (metafora del virus, o meglio, del simbionte). Vi è all’opera una dinamica co-evolutiva tra la lingua e il suo ospite, che produce l’evoluzione linguistica, come anche quella biologica del cervello umano. La teoria chomskiana delle regole grammaticali innate ha commesso l’errore di appiattire questo irriducibile processo di evoluzione biologico-culturale in una struttura formale statica.

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Il senso del celeste e i princìpi vichiani in James Joyce

> di Giuseppe Brescia*

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L’autonomia della poesia; la distinzione tra “persona pratica” e “personalità artistica” nello Shakespeare; l’interpretazione della legge dei “corsi e ricorsi storici”, come esigenza del perpetuo rinnovarsi di idealità spirituali e non meccanica ripetizione di fatti e accadimenti storici; la necessità, per non lasciarsi sopraffare, di contrapporre “forza a forza”, puntando però sempre al riscatto del cielo e dell’amore (“Love loves to love love”); il divario tra le “res gestae” e le “res gerendae” (“the irreparability of the past” e “the imprevedibility of the future”) nel corso dell’addio, al numero 7 di Eccles Street, tra Leopold Bloom e Stephen: – sono, questi, soltanto alcuni dei più importanti princìpi vichiani, e d’interpretazione vichiana, adottati da James Joyce in Ulysses (1922, ed. Penguin, London 1992, pp. 236 e 241-242; 490-492; 427-433; 816 sgg.), più tardi in Finnegans Wake, del 1939, il cui quarto libro è dedicato, propriamente, a “Il Ricorso”.

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Calling on the dogs. La bestemmia come veicolo del sacro a partire da un’intuizione di Jim Morrison

> di Daniele Baron

Dissacrare è sacralizzare

Ogni movimento di dissacrazione, di violazione del sacro, comporta tre elementi: un fattore fisico o ideale intoccabile, poi un movimento che infrange i confini, che spezza le barriere imposte, supera una soglia invalicabile e infine un elemento (che può incarnarsi in una persona, o in una cosa, o in un animale, o in un luogo) che si opponga a quello sacro, che sia fuori dai confini fissati dal sacro, fuori dal perimetro di ciò che si reputa inviolabile. Il movimento di dissacrazione si ha quando l’opposto dell’intoccabile viene ad unirsi o perfino ad identificarsi con l’intoccabile. Ciò che è da sottolineare in via preliminare è che lo strato ideale, sacro, una volta dissacrato, appare fragile, come un velo che nasconde altro. La sua natura è ambigua: fino a che sta in sé, opponendosi al profano, non sembra poter essere scalfito, sembra granitico, ma non appena viene dissacrato, profanato mediante l’identificazione con l’opposto, ecco che mostra la sua estrema fragilità. Tanto che ci viene da dubitare sul fatto che sia effettivamente sacro. Ci diciamo: se si unisce con il suo opposto o si identifica con esso, allora già dall’inizio deve avere qualche legame con esso, oppure fin dal principio deve essere altro da quello che finge di essere o da come lo abbiamo fino a qui ritenuto.

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Convinzioni irrazionali: chiusura dell’esperienza e approccio corporeo

> di Omar Montecchiani*

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In un momento particolare dello sviluppo – di solito nella prima infanzia – è possibile che l’individuo faccia un determinato tipo di esperienza, l’esperienza A, o più esperienze similari ripetute – più o meno dolorose, traumatiche, o comunque inibenti. Questo tipo di esperienza potrà far si che il soggetto venga ad assumere una determinata “posizione esistenziale” – come la chiama Berne – rispetto alla quale verrà a determinarsi il proprio senso di sé, e di sé in rapporto agli altri: questa posizione mi porterà a strutturare un determinato copione di vita, a partire dal quale io potrò, nel bene o nel male, gestire i miei rapporti, le mie emozioni, i miei comportamenti, per il resto della mia vita. Uno schema sostanzialmente, un modello operativo interno, che, irrigidendosi, può trasformarsi in un vero e proprio copione. Una maschera capace di mediare tra la non soddisfazione dei miei bisogni interni da parte dell’altro, e la dipendenza d’amore rispetto a quest’ultimo – il bisogno d’amore dell’altro –, che continuerò ad avere indipendentemente dalla soddisfazione o meno di quei bisogni.

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Categorie: Filosofia e nuovi sentieri 09 | Tag: Albert Ellis, analisi transazionale, Antonio Damasio, Carl Rogers, corpo, Counseling, Eric Berne, esperienza, Eugenio Borgna, Francesco Ruiz, , Gregory Bateson, John Bowlby, Wilhelm Reich | Permalink.

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«Im Anfang war die Tat»: Ludovico Gasparini

> di Luca Ormelli

© Bruna Giacomini

© Bruna Giacomini

«Se si guarda dall’alto, da una prospettiva panoramica, le vie percorse dalla ricerca di Ludovico Gasparini, non si può non osservare come esse riprendano, riformulandola o esplorandone nuovi metodi di risposta, una medesima questione, affrontata sin dall’inizio, che concerne il significato della libertà»1.

1. Intelligo quia absurdum

«Gàr autò noeîn estín te kaì gàr eînai» lo stesso è il pensare e l’essere secondo Parmenide in ciò ripreso da Hegel. Ma pensare richiede sempre un oggetto tematico di conoscenza, di apprensione, un pensare-di-qualcosa fosse anche il pensiero medesimo, e dunque pensare di essere non è lo stesso che essere; diversamente ne risulterà un essere impuro in quanto dimidiato con il pensiero. Ciò che è è necessariamente 2, senza dunque dipendere da un pensiero altro che lo pensi: «solo nominare l’Altro, significa immetterlo nella sfera della soggettività, per quanti sforzi si facciano per conservarlo come Altro»3. Ma «se l’essere ha bisogno, in qualsiasi modo lo si intenda, esso cade immediatamente nella correlatività dei bisogni, che è la fonte della rettorica di Michelstaedter, e non può più sottrarsene, per quanto se ne differenzi»4. Perché «se “l’Assoluto solo è vero, o il vero è Assoluto”, poiché non è possibile che “l’Assoluto se ne stia da una parte e il conoscere dall’altra”, allora una volta tolto l’Assoluto, ovvero, una volta criticata la pretesa hegeliana che “l’amore del sapere” possa trasformarsi in “vero sapere”, la realtà stessa viene annichilita e non può più darsi in essa alcun criterio capace di distinguerla dall’immaginazione, se non il medesimo senso comune»5.

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