Preferisce parlare di “violenza” anziché di “aggressività”. Perché?
Essendo uno psicologo, la mia scelta potrà apparire ancora più strana. Dopotutto, proprio la psicologia ha contribuito alla fortuna del concetto di “aggressività”: è facile notare come nel lessico scientifico occupi un posto di primo piano. Anche nelle nostre conversazioni quotidiane, il termine “aggressivo” è usato per descrivere un numero infinito di comportamenti con cui singoli o gruppi cercano di raggiungere i propri scopi e interessi gli uni contro gli altri. Così, possiamo dire che un bullo, un soldato, un politico, un atleta, un partner e così via siano aggressivi. Ma aggressività è un “termine sfortunato”: è soggetto a innumerevoli dispute semantiche, tali da rendere evidente che siamo in presenza di un concetto interpretativo piuttosto che descrittivo. Inoltre, a me pare che molti psicologi (e non solo) siano caduti nella trappola di credere che una moltitudine di comportamenti assai diversi siano riconducibili a un’unica categoria “naturale”, l’aggressività appunto. Proprio analizzando criticamente un simile convincimento, sono giunto alla conclusione che l’aggressività è veramente un concetto-valigia, ci si può infilare di tutto e di più, e quindi mi sembra scientificamente poco spendibile per comprendere e spiegare la varie e mutevoli forme della conflittualità umana. Per questo motivo preferisco il ricorso al concetto di violenza. Non che questo concetto sia privo di ambiguità, tutt’altro; ma rigettando l’alveo “naturale” dove si fa accasare la nozione di aggressività, il ricorso al concetto di violenza costringe a fare i conti con queste ambiguità, rendendole esplicite.