Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot


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La bestia dentro di noi. Intervista ad Adriano Zamperini su società e violenza


Preferisce parlare di “violenza” anziché di “aggressività”. Perché?

Essendo uno psicologo, la mia scelta potrà apparire ancora più strana. Dopotutto, proprio la psicologia ha contribuito alla fortuna del concetto di “aggressività”: è facile notare come nel lessico scientifico occupi un posto di primo piano. Anche nelle nostre conversazioni quotidiane, il termine “aggressivo” è usato per descrivere un numero infinito di comportamenti con cui singoli o gruppi cercano di raggiungere i propri scopi e interessi gli uni contro gli altri. Così, possiamo dire che un bullo, un soldato, un politico, un atleta, un partner e così via siano aggressivi. Ma aggressività è un “termine sfortunato”: è soggetto a innumerevoli dispute semantiche, tali da rendere evidente che siamo in presenza di un concetto interpretativo piuttosto che descrittivo. Inoltre, a me pare che molti psicologi (e non solo) siano caduti nella trappola di credere che una moltitudine di comportamenti assai diversi siano riconducibili a un’unica categoria “naturale”, l’aggressività appunto. Proprio analizzando criticamente un simile convincimento, sono giunto alla conclusione che l’aggressività è veramente un concetto-valigia, ci si può infilare di tutto e di più, e quindi mi sembra scientificamente poco spendibile per comprendere e spiegare la varie e mutevoli forme della conflittualità umana. Per questo motivo preferisco il ricorso al concetto di violenza. Non che questo concetto sia privo di ambiguità, tutt’altro; ma rigettando l’alveo “naturale” dove si fa accasare la nozione di aggressività, il ricorso al concetto di violenza costringe a fare i conti con queste ambiguità, rendendole esplicite.

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Categorie: Ex libris | Tag: Abu Grahib, Adriano Zamperini, aggressività, Columbine, Lombroso, Lorenz, Luigi Zoja, Marialuisa Menegatto, , , Utoya, Villella, violenza | Permalink.


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Jean Améry e la fenomenologia del male

> di Massimo Carloni*

«Ho vissuto l’inesprimibile»

Cos’è il male? E soprattutto, come si manifesta nella realtà umana? Azzardiamo una definizione, per così dire, esistenziale. Il male è quella particolare condizione umana caratterizzata da una progressiva negazione della libertà individuale, che blocca o limita la possibilità di progettarsi nel mondo, di sottrarsi all’inerzia pietrificata di ciò che si è, culminante nella definitiva soppressione della persona ad opera della morte. Una tale condizione può essere determinata da un dolore fisico o da una sofferenza morale; può provenire dall’esterno o consumarci dall’interno; può emanare da una volontà individuale o collettiva, ovvero da un meccanismo sociale impersonale. Il risultato, tuttavia, non cambia. La sfera della libertà personale risulta compromessa, subisce una contrazione, fino a collassare su se stessa.

Prima ancora d’interessare l’ambito morale, metafisico o religioso, il problema del male è prima di tutto una questione essenzialmente fisica. Il corpo, in quanto veicolo della libertà umana, diventa lo scenario in cui il male dispiega la propria azione distruttiva. Dotato di un apparato sensoriale vulnerabile alle sollecitazioni sia esterne che interne, il corpo, da una parte, è il bersaglio privilegiato della violenza, dall’altra, con il decadimento fisiologico, diventa produttore del proprio dolore, come una sorta di torturatore di se stesso.

Jean Améry[1] è stato un testimone diretto, quanto mai lucido e prezioso, delle manifestazioni del male: dalle più atroci, perpetrate dall’uomo sui propri simili, a quelle cosiddette naturali, quali la malattia, la vecchiaia e la morte, sino alla paradossale soluzione che induce l’individuo a «levare la mano su di sé». Intrecciando mirabilmente esperienza personale e analisi fenomenologica, Améry conferisce ai suoi scritti letterari e saggistici, il tono inconfondibile dell’autenticità, della verità vissuta, così da farli apparire come altrettanti capitoli d’una lunga, amara autobiografia.

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Società e senso del limite

> di Omar Montecchiani*

GIACOMETTI

Probabilmente ha ragione Ehrenberg, quando, nel suo famoso libro La fatica di essere se stessi, sostiene il fatto che siamo passati da un paradigma psicopatologico nel quale prevaleva l’aspetto conflittuale, nevrotico della persona, a una psicopatologia della mancanza, in cui predominano gli aspetti depressivi, sottrattivi, legati alla cosiddetta “fatica di esistere”.

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Eric Kandel, L’età dell’inconscio. Arte, mente e cervello dalla Grande Vienna ai nostri giorni

> di Ruggero D’Alessandro*

Eric Kandel - L'età dell'inconscio

Uno dei segnali inequivocabili di un’epoca intessuta di fermenti artistici e riflessioni filosofiche, intensità letteraria e ricchezza musicale è l’apparire di opere capaci di rispecchiare e sintetizzare tali fermenti, gettando un ponte verso il futuro. Oggi, rileggere libri come La civiltà del Rinascimento in Italia di Jakob Burckhardt, la Breve storia della musica di Massimo Mila o Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna di Claudio Magris, collegare fra loro Cultura e rivoluzione industriale sulla scia di Raymond Williams permette di respirare un’atmosfera attraverso le sue migliori testimonianze. Ci sembra che il libro di Eric Kandel, L’età dell’inconscio. Arte, mente e cervello dalla Grande Vienna ai nostri giorni [Raffaello Cortina, Milano 2013] rappresenti un avvenimento non frequente in questi anni. Anzitutto per la ricchezza di collegamenti; poi per l’intensità multidisciplinare, per la forza con cui si abbattono gli steccati (purtroppo ancora esistenti e resistenti) fra le culture umanistica e scientifica (si pensi ad un testo che nel 1959 fa epoca: Le due culture, di Charles Percy Snow).

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Frammento Repubblica Platone


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Scolio XX

LO SCHIZOIDEO IMPERANTE
Nei toni di un invito a Nietzsche

> di Leonardo Arena*

…allo schizo, pertanto, appartiene di fatto il mondo del pensiero, checché ne dicano Deleuze e Guattari, il cui Antiedipo segnerà una svolta, rispetto ai convulsi rapporti padre/madre, per tutti noi, i figli occidentali di un platonismo mal digerito o soltanto espunto, si spera, dai meandri della Storia. Nietzsche vi pertiene, pertiene alla sfera schizoidea, ma ciò non suoni come un rimpianto, o un’accusa di reato, no, non incriminazione, qualora lo schizo fosse, come è, il substrato di ogni nostro pensiero o azione, od omissione, come un tempo asseriva in una dottrina pretesa cattolica e quindi universale. Lo schizo che noi siamo osa assumere i toni del paranoideo, anche parmenideo, che s’impunta sulle distinzioni, normale/anomalo, complotto/innocenza, e non ne viene a capo; no, se non vietandosi di aderire all’esorcismo del nudo, grande piaga dell’epoca, che vorrebbe trovare, e non lo attinge, il senso, fosse pure uno solo, il significato, e poi arretra di fronte allo stesso Moloch che ha creato.

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Orientamento psicoanalitico-psichiatrico e metodo fenomenologico-esistenziale

> di Omar Montecchiani*

Senza la pretesa di voler essere esaustivi, né di voler scendere nelle profondità e nelle ampiezze di un dibattito storico-culturale tanto lungo e controverso, l’intenzione è quella di ricondurre alcune basilari differenziazioni tra l’approccio psicoanalitico e psichiatrico e l’approccio fenomenologico-esistenziale, realizzando indicativamente alcuni postulati critici ed ermeneutici che hanno caratterizzato entrambe le metodologie lungo i loro differenti, reciproci percorsi.

Potremmo cominciare col dire che a differenza del primo, il metodo fenomenologico-esistenziale ha indagato e esplicitato nel modo più globale e penetrante il concetto di corporeità “vissuta”, di inter-relazionalità – di esistenza intesa nel senso più ampio e profondo del termine: cioè in senso ontologico, fenomenologico e trascendentale. Il corpo, secondo questo approccio, rappresenta l’inerire della propria soggettività al mondo della vita per il tramite di un’intenzionalità progettante/costituente, e rappresenta esso stesso il luogo di una correlazione primigenia intesa come apertura originaria tra intelletto e mondo [1]. Senza questa apertura originaria e questa interazione costante tra corpo e mondo, non potrebbe darsi un’esperienza soggettiva che tenga conto delle qualità differenziali dei soggetti coinvolti nell’interazione, ma solamente una oggettivazione astrattiva della idea di corpo e di mondo che, inevitabilmente, si trova a falsare la realtà e la complessità dell’esperienza personale del vivere. Continua a leggere

Frau Arbeit


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Capitalismo, religione, follia: la società del debito

> di Andrea Sartori*

A scena aperta: una domanda di partenza

Nel recente romanzo Resistere non serve a niente di Walter Siti – curatore delle opere di Pier Paolo Pasolini per i Meridiani della Mondadori – è evocato un episodio di corruzione che ha i tratti epifanici della grazia: «Ventimila marchi elargiti in un giorno di pioggia a un portiere d’albergo per non essere registrato; un poema la faccia di quello, la bocca aperta come i pastorelli di Fatima: più una predella devozionale che una scena di corruzione» [1]. Protagonista di un gesto così religiosamente significativo da meritare d’essere ricordato sulla fascia dipinta che correda il piede di una pala d’altare, è Morgan, rampollo d’una famiglia mafiosa. Tommaso – broker d’assalto in cerca di utili consigli – lo interpella in qualità di teorico del nuovo capitalismo monetario (creditizio e portatore d’interessi), ovvero di quell’età dell’economia moderna, la cui principale leva per il profitto non coincide con lo sviluppo dell’industria garantito dallo sfruttamento del lavoro, né con lo scambio delle merci sospinto dal consumo, ma con il debito fine a se stesso sugli interessi di un capitale in buona sostanza lasciato inerte [2]. Nei mercati in interconnessione globale, infatti, sono ormai solo i valori nominali a essere vorticosamente spostati da un capo all’altro del mondo; per questo l’immagine del capitale a oggi più attuale – una massa immobile, improduttiva, attorno alla quale ronzano opportunisti e speculatori – è forse ancora quella scatologica allusa dal titolo del profetico romanzo del 1989 di Paolo Volponi, Le mosche del capitale.

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La religione dissacrante di Franco Ferrarotti. La persistenza del sacro nell’epoca del disincanto

> di Pietro Piro*

Questo uomo è letteralmente dissolto:
che sia in nome del mito o della dialettica,
l’uomo, perdendo la verità, perde se stesso.
In realtà non c’è più l’uomo, perché non c’è nulla
che trascenda l’uomo
[Henri de Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo]

Franco Ferrarotti - La religione dissacranteI.

I fatti recenti che hanno coinvolto la Chiesa cattolica – gli scandali legati agli abusi sessuali del clero, le faide interne per accaparrarsi un posto di privilegio nella gerarchia, le fughe di notizie rubate da maggiordomi dalla psicologia incomprensibile [1], il gran rifiuto del Papa teologo, l’avvento del nuovo Papa venuto dalla fine del mondo – hanno generato una spirale d’interesse sulle vicende della vita della Chiesa cattolica che supera i confini del mondo dei fedeli e che coinvolge anche coloro che di questi argomenti generalmente non si occupano per niente.

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Federico Sollazzo: Totalitarismo, democrazia, etica pubblica

> di Pietro Piro*

La società modernizzata fino allo stadio dello spettacolare integrato è contraddistinta dall’effetto combinato di cinque caratteristiche principali che sono: il continuo rinnovamento tecnologico; la fusione economico-statale; il segreto generalizzato; il falso indiscutibile; un eterno presente.

[G. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo]

Federico Sollazzo, "Totalitarismo, democrazia, etica pubblica"

I.

Il libro di Federico Sollazzo, Totalitarismo, democrazia, etica pubblica [1] oltre ad essere ben argomentato e ben scritto, ha il merito di riportare la nostra attenzione su temi che senza nessun timore possiamo definire essenziali. Il libro si propone di affrontare argomenti complessi e densi dal punto di vista umano ed ermeneutico ed è diviso in tre grandi sezioni: Filosofia Morale, Filosofia Politica ed Etica. Il testo [costruito come un percorso in cui la storicità degli eventi segna il susseguirsi delle argomentazioni] pre-pone il fenomeno del totalitarismo come elemento di partenza e punto d’irradiazione per sviluppare tutte le argomentazioni successive. Riteniamo sia dunque metodologicamente corretto, partire proprio dall’analisi di Sollazzo su quest’argomento per sviluppare poi le nostre argomentazioni critiche. Il libro si apre con quest’affermazione:

«Il crollo dei regimi totalitari non ha certo segnato il superamento della problematica del controllo totale sugli individui, del dominio, ma un mutamento della forma e dei modi di attuazione dello stesso, un suo perfezionamento. Queste dinamiche rendono necessario il ricorso a un nuovo strumento concettuale, del quale fondamentali riferimenti, fra gli altri, sono i termini “sistema” e “Impero”» [2].

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