Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Frammento Repubblica Platone


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Scolio XXVIII

> di Luca Ormelli

La società, così si sente sempre più di frequente ripetere – a tal punto che ciò che era scaturito come una possibile visione del mondo ne è divenuta la sola possibile, un dogma – è come un organismo e come ogni organismo ha in sé la capacità di riprodursi e di contrastare tutto quel che di minaccioso e di ostile alla sua prosperità può farglisi innanzi. E come un organismo, ad esempio, minacciato dal diabete, per fronteggiare la cancrena che presto o tardi lo pervaderà, stabilisce di dover amputare le propaggini più estreme e più marginali di sé al fine di arrestare la distruzione e lo sfacelo che attraverso di esse hanno aggredito il corpo nella sua totalità, allo stesso modo la società esilia, bandisce, espelle chi in essa non è portatore di beneficio, chi essendo stato respinto o, peggio ancora, nato ai margini non può che costituire una minaccia per la salute pubblica. Poeti, filosofi, artisti, pazzi. Lasciate coloro che sono ai margini fuori dalla città della speranza, sembrano dire i benestanti abitanti della società liberale, non curatevi di loro né, tanto meno, con loro mescolatevi pena il contagio e il deperimento di ciò che è sano perché sotto ogni cielo ed in ogni epoca nessun sano desidera intrattenersi con la malattia. Così non è lontano il giorno in cui sarà data cittadinanza solo a coloro che avranno reddito tale da poter, a pieno titolo, abitare il florido corpo sociale. Quanto agli altri, poeti, filosofi, artisti, pazzi, essendosi essi stessi voluti stranieri, ebbene, che restino fuori dalle nostre porte e dalla nostra speranza, invisibili.


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La bestia dentro di noi. Intervista ad Adriano Zamperini su società e violenza


Preferisce parlare di “violenza” anziché di “aggressività”. Perché?

Essendo uno psicologo, la mia scelta potrà apparire ancora più strana. Dopotutto, proprio la psicologia ha contribuito alla fortuna del concetto di “aggressività”: è facile notare come nel lessico scientifico occupi un posto di primo piano. Anche nelle nostre conversazioni quotidiane, il termine “aggressivo” è usato per descrivere un numero infinito di comportamenti con cui singoli o gruppi cercano di raggiungere i propri scopi e interessi gli uni contro gli altri. Così, possiamo dire che un bullo, un soldato, un politico, un atleta, un partner e così via siano aggressivi. Ma aggressività è un “termine sfortunato”: è soggetto a innumerevoli dispute semantiche, tali da rendere evidente che siamo in presenza di un concetto interpretativo piuttosto che descrittivo. Inoltre, a me pare che molti psicologi (e non solo) siano caduti nella trappola di credere che una moltitudine di comportamenti assai diversi siano riconducibili a un’unica categoria “naturale”, l’aggressività appunto. Proprio analizzando criticamente un simile convincimento, sono giunto alla conclusione che l’aggressività è veramente un concetto-valigia, ci si può infilare di tutto e di più, e quindi mi sembra scientificamente poco spendibile per comprendere e spiegare la varie e mutevoli forme della conflittualità umana. Per questo motivo preferisco il ricorso al concetto di violenza. Non che questo concetto sia privo di ambiguità, tutt’altro; ma rigettando l’alveo “naturale” dove si fa accasare la nozione di aggressività, il ricorso al concetto di violenza costringe a fare i conti con queste ambiguità, rendendole esplicite.

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Categorie: Ex libris | Tag: Abu Grahib, Adriano Zamperini, aggressività, Columbine, Lombroso, Lorenz, Luigi Zoja, Marialuisa Menegatto, , , Utoya, Villella, violenza | Permalink.

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Scolio XXVII

«Nessuno può osservare la vita umana con maggior saggezza e imparzialità che da quella posizione vantaggiosa offerta da una povertà che noi definiremmo scelta volontariamente. Il frutto di una vita di lusso è il lusso, sia in agricoltura che in commercio, in letteratura e in arte. Al giorno d’oggi vi sono professori di filosofia ma non filosofi. (…) Essere filosofi non significa soltanto avere pensieri acuti, o fondare una scuola, ma amare la saggezza tanto da vivere secondo i suoi dettami: cioè condurre una vita semplice, indipendente, magnanima e fiduciosa. Significa risolvere i problemi della vita non solo teoricamente ma praticamente. Il successo dei grandi eruditi e dei grandi pensatori è di solito un successo cortigiano, né regale né virile. S’adattano a vivere seguendo la regola comune – praticamente come fecero i loro padri – e non sono affatto progenitori di nobili stirpi» [Henry D. Thoreau, Walden ovvero vita nei boschi, BUR, Milano 1988, pp. 72-73].

Frammento Repubblica Platone


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Scolio XXVI

«Esistono due tipi di realtà dell’anima: l’uno è la vita e l’altro è il vivere; entrambi sono ugualmente reali, ma non possono esserlo contemporaneamente. Nell’esperienza di ogni uomo sono contenuti i due elementi, anche se con intensità e profondità sempre diverse, anche nel ricordo, ora questo ora quello; soltanto in una forma possono essere percepiti contemporaneamente. Da quando esiste una vita e degli uomini che vogliono capirla e ordinarla è esistito sempre questo dualismo nelle loro esperienze» [G. Lukács, Essenza e forma del saggio: una lettera a Leo Popper, in Id., L’anima e le forme, SE, Milano 1991, p. 19].

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Scolio XXV

> di Luca Ormelli

Finché la colpa ottenebrerà la lingua della ragione ancora il cuore avrà bisogno di sangue caldo con il quale placarsi la sete. Nessuna condanna togata varrà mai quanto andiamo catodicamente espiando per interposta visione. Aronne, indossando la veste dell’anchorman «poserà entrambe le sue mani sulla testa del capro vivo e confesserà su di esso tutte le iniquità dei figli d’Israele, tutte le loro trasgressioni, tutti i loro peccati, e li metterà sulla testa del capro… (ed esso) porterà su di sé tutte le loro iniquità in terra solitaria» [Le 16, 21-22].

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Scolio XXIV

> di Luca Ormelli

La tassonomia – ed il suo sommo pontefice Linneo – è la più corruttiva delle infezioni del cerebro che, originando da Aristotele, abbiano incendiato gli ingegni facilmente surriscaldabili degli illuministi fino all’ascesso febbrile della cosmologia hegeliana. Non si dà infatti alcun ordine quanto alle cose del mondo – ed ancor meno esso vige nelle faccende di spirito – differente dalla inestinguibile volontà di persistere e di depredare. E come in natura ad ogni generazione trionfa il più forte così è per le cose dello spirito: l’idea più forte si impone inconsapevole di essere il prossimo capro sgozzato sull’altare della vita.

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Scolio XXIII

> di Luca Ormelli

La città è il travestimento per eccellenza: in città migliaia di vite simulano senza sosta la vita incessante della natura. Un teatro di gesta. Epperò l’uomo, che è per certo creatura della natura, è altresì la meno naturale tra di esse quanto al vivere e nel suo vivere, più egli si vuole naturale più della natura si fa imitatore. Di modo che nulla vi è di più naturale, di più umano della sua maschera. La città è religio mortis, non avvolge come il borgo solleticando l’illusione dell’appartenenza, della comunità (Gemeinschaft). Nella sua oscenità la solitudine vuole l’atrocità della moltitudine, la sua messinscena.

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Scolio XXII

> di Luca Ormelli

E come l’edera cresce più rigogliosa sulle spoglie putrescenti dell’antica verzura, sempre intrecciando foglie fresche ad altre ormai vizze così tutto quanto vive e si muove calpesta l’impronta di quel che morendo gli ha aperto il sentiero lasciando al contempo segno del proprio passo. Ancora la generazione segue la corruzione, l’essere il nulla essendo, di questo, il simbolo, il mistero manifesto.

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Scolio XXI

> di Luca Ormelli

La violenza spesso ristagna tagliente nelle espressioni all’apparenza più innocue. “Cittadino del mondo” ripetono in contrappunto le anime che si vogliono semplici ma avvertite; non si avvedono che, così facendo, strappano con l’inganno a quella natura che tanto rispettano la sua ultima potestà: l’essere cioè compiutamente tirannica.


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Addio al filosofo Stefano Garroni

stefano garroni

«La morte accompagna nel silenzio ogni nostro respiro. Gli attimi vissuti si ricompongono in un ordine fisso, immobile.

Le cose che abbiamo amato ci accompagnano nel segreto oscuro delle porte chiuse.

Ci ha lasciato Stefano Garroni. Filosofo. Uomo rigoroso, serio e profondo.

Ostile alle semplificazioni, alla filosofia spettacolare e vuota, alle liquidazione in blocco delle grandi tradizioni intellettuali dell’Occidente.

Era consapevole che l’impegno è oggi “scelta morale” che parte dall’individuo e che si traduce poi in gesto politico, “atto eroico” in un mondo che ha perso “qualunque moralità”.

Sapeva che la rinuncia dell’uomo–massa ad andare in fondo è anche la rinuncia alla Filosofia.

Ci restano le sue analisi, i suoi libri e il ricordo di quella cortesia cavalleresca di chi ha attraversato il proprio tempo assumendosi il rischio di pensare». 

Pietro Piro

La Redazione di “Filosofia e nuovi sentieri” si associa alle parole commosse di Pietro Piro di addio a Stefano Garroni, filosofo italiano mancato il 13 aprile 2014.

Garroni aveva cortesemente concesso alla nostra rivista una intervista – pubblicata il 16 ottobre 2013 e reperibile al seguente link: Filosofia e nuovi sentieri incontra Stefano Garroni.

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Scolio XX

LO SCHIZOIDEO IMPERANTE
Nei toni di un invito a Nietzsche

> di Leonardo Arena*

…allo schizo, pertanto, appartiene di fatto il mondo del pensiero, checché ne dicano Deleuze e Guattari, il cui Antiedipo segnerà una svolta, rispetto ai convulsi rapporti padre/madre, per tutti noi, i figli occidentali di un platonismo mal digerito o soltanto espunto, si spera, dai meandri della Storia. Nietzsche vi pertiene, pertiene alla sfera schizoidea, ma ciò non suoni come un rimpianto, o un’accusa di reato, no, non incriminazione, qualora lo schizo fosse, come è, il substrato di ogni nostro pensiero o azione, od omissione, come un tempo asseriva in una dottrina pretesa cattolica e quindi universale. Lo schizo che noi siamo osa assumere i toni del paranoideo, anche parmenideo, che s’impunta sulle distinzioni, normale/anomalo, complotto/innocenza, e non ne viene a capo; no, se non vietandosi di aderire all’esorcismo del nudo, grande piaga dell’epoca, che vorrebbe trovare, e non lo attinge, il senso, fosse pure uno solo, il significato, e poi arretra di fronte allo stesso Moloch che ha creato.

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Scolio XIX

> di Luca Ormelli

La filosofia che nasce urbana è una filosofia viziata; somiglia a quei frutti che catturano la vista anziché il gusto tanto sono irrealmente privi di imperfezioni. La filosofia, quando nasce autentica, è sempre una filosofia della natura, περι φυσεως.

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