«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot
Se si seguissero i presupposti e i princìpi enunciati da Markus Gabriel (“Heidegger non conta più”, «Corriere della Sera», 17 maggio 2015) credo che qualunque forma di storiografia filosofica (la quale non può non tener conto dei contesti, storici e di conseguenza anche nazionali, in cui i diversi percorsi speculativi si sono sviluppati) diverrebbe impossibile. Continua a leggere →
Il neodarwinismo imperante in biologia ritiene che la vita sia sorta dal caso e che sia dominata dalla competizione violenta. È veramente così che stanno le cose? È l’unica visione della realtà in accordo con la scienza moderna? Prima di porre tali domande, ci sarebbe da dimostrare che questa impostazione regga davvero alla prova dei fatti: ebbene, pare che non sia così, poiché oggi sappiamo (è la stessa scienza a renderlo noto) che la vita si sviluppa secondo una logica di aggregazione e di cooperazione, oltre che di selezione. Il neodarwinismo è dunque un’idea quanto meno parziale. Continua a leggere →
Il secolo del Novecento nella memoria collettiva si presenta come un flusso continuo di immagini-sequenza, in cui gli eventi che lo contraddistinguono sono richiamati mediante immagini convenzionali e ricorrenti, pensiamo allo storico discorso pronunciato da Mussolini dai balconi di Palazzo Venezia che annuncia l’avvenuta dichiarazione di guerra alla Francia e all’Inghilterra, il discorso del Führer proferito all’indomani della vittoria nelle elezioni del 1933 ai membri del partito Nazional Socialista, la caduta del muro di Berlino nel 1989 e l’attentato al pontefice Giovanni Paolo II, potremmo elencarne ancora degli altri, ma questi pochi esempi attestano l’esistenza di un immane archivio memoriale di immagini filmiche che il cinema prima e la televisione poi hanno trasmesso e reiterato nel tempo. Questo dato è di primaria importanza perché segnala come l’avvento dei mezzi di comunicazione di massa abbia modificato i tradizionali modelli di comprensione e di conoscenza del mondo reale. L’immagine ha assunto così una valenza conoscitiva decretando la vista come il principale ed unico universo sensoriale a codificare, interpretare e conoscere il mondo circostante, le relazioni e le esperienze degli individui. Negli ultimi anni la proliferazione della produzione filmica sulla Shoah ha raggiunto i massimi livelli, come hanno osservato un gruppo di studiosi durante un work-shop svoltosi al Center for Advanced Holocaust Studies nel giugno del 2000, gli Holocaust Film hanno acquisito lo statuto di vero e proprio genere cinematografico a partire dalla metà degli anni 50 con il documentario commemorativo Notte e Nebbia, realizzato nel 1956 dal regista francese Alain Resnais e dal film hollywoodiano, Ildiario di Anna Frank, realizzato nel 1959 dal regista George Stevens. Questo dato rivela come gli studi sulla cinematografia concentrazionaria sia di fondamentale importanza nella trasmissione dell’Olocausto, tanto più ora che la memoria, nell’inevitabile scomparsa dei testimoni diretti, diventa mediata dalle immagini, dai racconti, dalle informazioni disponibili ed accessibili liberamente dai new media. Marianne Hirsch la definisce la “post-memoria”,una forma molto potente e particolare di memoria, proprio perché il suo rapporto con l’oggetto e con la fonte non è mediato dai ricordi, ma da un investimento dell’immaginazione e dell’invenzione. Ciò non significa che la memoria non sia di per sé mediata, ma essa è più direttamente legate al passato. La post-memoria caratterizza l’esperienza di coloro che sono cresciuti avvolti nei racconti di eventi che hanno preceduto la loro nascita, per cui è come se alle loro storie personali si fossero sostituite le storie delle generazioni precedenti, che hanno vissuto eventi ed esperienze traumatizzanti [1].
L’interculturalità è un problema del nostro tempo. Di sicuro non si tratta più di un tema nuovo ma sicuramente sempre attuale, considerando come la ricerca del possibile dialogo tra differenti prospettive sia all’ordine del giorno. Ciò fa sì che l’indagine relativa alle manifestazioni storiche di tale dialogo, e alle sue possibilità strutturali, continui ad essere teatro di interessanti dibattiti e stimolanti proposte. Nel solco relativo a tali ricerche si colloca il volume in questione, curato da Giuseppe Cacciatore e Antonello Giugliano, studiosi che da tempo rivolgono le proprie ricerche all’analisi della “questione interculturale”. Continua a leggere →
In this article we’ll analyze some of the ‘methaphorogical’ processes, illustrated by the German philosopher Hans Blumenberg in his work “Paradigmen zu einer Metaphorologie” (1960). Particularly, in the first chapter we’ll step into the concept of “Truth” and its power in the metaphoric sense of “light”, “revelation” and “human labour”; the second will concern two of the most important paradigmatical shifts at the threshold of modernity: from an organicistic view to a mechanicistic one, and from the Tolemaic astronomic organization to the Copernican model. In the end of the essay, there’ll be a general presentation of Blumenberg’s hermeneutic method of philosophical research. Continua a leggere →
Istintivamente è difficile immaginare che un capolavoro possa celarsi in un piccolo libro, di una sessantina di pagine appena: la filosofia ci ha abituati a letture defatiganti e all’idea che la densità del pensiero vada di pari passo alla lunghezza dell’esposizione. Eppure c’è sempre dietro l’angolo l’eccezione che conferma la regola; verrebbe da aggiungere: “quella che non ti aspetti”, ma nel caso di La bellezza (non) ci salverà, di Agnes Heller e Zygmunt Bauman (ed. Il Margine) c’era da aspettarselo eccome. Continua a leggere →
«Dopo tutto siamo la sola civiltà in cui delle persone
specialmente addette sono retribuite
per ascoltare ciascuno confidare il proprio sesso…»
Michel Foucault
È bene chiarire sin da ora che la scelta di centrare il discorso inerente il mito della cura sulla psicologia è una scelta non casuale o, in alternativa, dettata da motivi esterni alla struttura logica del nostro lavoro. La psicologia è, senza alcun dubbio, la disciplina che meglio incarna un certo modo di articolarsi del mito dell’individuo, specie come lo abbiamo visto agganciarsi ai temi del potere, nel momento specifico della sua sussunzione come “organismo malato”, dunque bisognoso di essere preso in carico in un’ottica terapeutica. La radice profondamente ideologica dei suoi fondamenti teorici sopravanza notevolmente quelle di discipline contigue come la sociologia e l’antropologia, che pure mantengono un rapporto stretto con la prospettiva storica. Continua a leggere →
Dove si radica la poesia? Da dove nasce? Risponde solo alle esigenze del cuore oppure dà voce anche alla ragione? Il trattato “falso” che Fondane dedica alla questione estetica ha come oggetto proprio il tentativo di restituire alla produzione artistica il suo suolo massimamente vivo e non catturabile concettualmente. Nello specifico, Fondane si riferisce alla produzione poetica, che l’estetica istituzionale vuole riportare sotto il controllo della ragione, implicando la perdita della sua radice vitale e palpitante. La falsità del trattato, allora, non risiede nel suo oggetto bensì nella modalità con cui questo viene trattato. L’abbattimento, o meglio il non riconoscimento delle codificazioni ufficiali, lo stile lontano dai precedenti e contemporanei trattati di estetica, fanno, dell’opera di Fondane, uno scritto provocatorio capace di mostrare come tale “falsità” riesca a dar voce alla ricchezza semantica e ritmica della poesia. Continua a leggere →
Il presente articolo ripropone, in chiave storico filosofica, alcuni dei passi più significativi della teoria dei princìpi discussa da Aristotele nel primo libro della Fisica.
Si corre spesso il rischio di rileggere i princìpi della scienza aristotelica alla luce della filosofia moderna e contemporanea.
Non è questo l’obiettivo del lavoro bensì un’analisi appropriata della filosofia di Aristotele in rapporto alle dottrine dei suoi predecessori.
Il confronto con la filosofia eleatica
Per comprendere il ruolo assunto dal confronto con l’eleatismo occorre anzitutto soffermarci sulla nozione stessa di Fisica. Qual è l’oggetto della Fisica?
La φύσις non è altro che la natura, vale a dire l’ambito eterogeneo di quegli oggetti la cui caratteristica intrinseca è quella di essere soggetti al divenire e al cambiamento.
«Riteniamo – scrive Aristotele – di conoscere ciascuna cosa, quando ne riconosciamo le cause prime e i principi primi […]. E’ perciò chiaro che anche per la scienza della natura si deve anzitutto cercare di stabilire ciò che concerne i principi». [1] Conosciamo autenticamente qualcosa solamente nella misura in cui ne conosciamo i principi, solo quando ne determiniamo un fondamento. Se principio degli oggetti della natura è il divenire per rendere questi ultimi oggetto di una scienza possibile, occorrerà interrogarsi proprio sulla natura del divenire. Ed è proprio nell’ambito di tali considerazioni che si inserisce il confronto con la posizione eleatica, la quale nega, per l’appunto, il divenire; e ciò, potremmo dire, da un duplice punto di vista. Continua a leggere →
Il problema fondamentale della filosofia è quello del rapporto tra il Pensiero e l’Essere. E se la logica è lo studio delle leggi necessarie del pensiero, per dirla con il padre della critica moderna, allora il problema di quel rapporto è il problema della logica. Ma che cos’è la logica, quando la si indaghi a fondo e da vicino? In quale relazione è, fin dall’origine, con il logos? Può essere esaurita in una serie di regole, per quanto ampia, o va indispensabilmente tenuta aperta e in itinere? Domanda da porre soprattutto quando si tiri in ballo la temporalità: perché se l’Essere evolve nel tempo e il Pensiero, in qualche modo, ne segue le vie… come non immaginare che anche il legame tra i due (cioè quel legame che abbiamo chiamato, appunto, logica), evolva con essi? Continua a leggere →
Il primato ontologico del Pensiero: la scienza moderna
Nella prima parte di questo articolo si è cominciato a mostrare come Panikkar rifiuti il modo con cui la civiltà occidentale, nel corso dei secoli, ha costruito la propria struttura riconoscendo l’identità tra Pensare ed Essere, sin dal dettato parmenideo del frammento 3 Diels-Kranz, sempre in una direzione che parte dal pensare e giunge ad in-formare l’essere. In un certo qual modo, quindi, accettare acriticamente il dogma parmenideo significa donare una priorità non solamente gnoseologica ma anche ontologica alla capacità razionale umana di analizzare in senso logico ogni dato, empirico e non. E se qualcosa non è pensabile secondo i canoni della razionalità e della logica, sembra provocatoriamente dire Panikkar, allora non esiste: ad esempio, parlando del divenire, nel primo tomo del decimo volume che raccoglie le Gifford Lectures l’autore ricorda:
«Zenone di Elea, da bravo allievo di Parmenide, negherà il movimento (e, in ultima analisi, il Divenire) perché la nostra mente non può comprenderlo» (RPOO X/1, p. 133). Continua a leggere →
Il convitato di pietra
Più di dieci anni fa fu organizzato un incontro tra due pensatori contemporanei la cui influenza continua ad essere fortemente presente in quegli ambiti di cui si sono occupati ed in quelle vite che il loro passaggio ha incrociato. Nell’aula magna dello IUAV, il 9 marzo 2004 a Venezia, Emanuele Severino e Raimon Panikkar si incontrarono dopo oltre trent’anni (la prima volta avvenne a Roma, in occasione dei famosi Colloqui Castelli, come loro stessi ricordarono in quel momento); ed è di quest’anno, finalmente, la pubblicazione del testo di quell’incontro. Leggere gli scambi di battute, le domande, le risposte ed il rispettoso disaccordo tra i due protagonisti restituisce almeno parzialmente l’atmosfera di quel giorno e la forza delle questioni sul tavolo. Uno dei punti dove la discussione si è fatta più serrata ed interessante, come emerge dal testo e come sottolineato nel commento scritto da Luigi Vero Tarca che accompagna il volume, è la metafora della rete e del mare. Per riassumere quello scambio, Severino sostiene che quando si va a pesca la rete cattura sempre il mare, e se qualcosa esce dalla rete dev’esserci una super-rete che comunque permette di comprendere il mare. Panikkar ribatte sostenendo che anche se si andasse a pesca, ci sarebbero comunque pesci catturati e pesci di cui non si sa nulla, perché escono dalle maglie della rete; il mare non sfugge né è preso, semplicemente sta – e comunque, lui non ha reti per pescare (Panikkar, Severino 2014, pp. 27-33). Continua a leggere →